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COVID-19 il tampone: quando e quanto serve

Il dott. Giovanni Canzio spiega alcuni dettagli che tutti dovrebbero sapere sul COVID-19 e il tampone

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SARS-Cov-2 (esterno e interno)

COVID-19 TAMPONE

La pandemia ha portato alla diffusione mediatica, a volte ossessiva, di due termini: VENTILATORE E TAMPONE.

Se il ventilatore ha un’immediata percezione della sua funzione salvavita per pazienti affetti da Covid-19 con decorso grave e critico, per il tampone si è creata una grande confusione sul suo significato e uso.

Oggi, per quei lettori di Porta Grande più curiosi e amanti della scienza, voglio presentare lo stato dell’arte sui tamponi per la ricerca del coronarovirus, con un linguaggio scientifico semplice ma che, inevitabilmente, non può fare a meno di riferimenti microbiologici.

Approfitto di questi ultimi giorni di “quarantena” per condividere con voi la mia sempre viva passione per la conoscenza e l’informazione, prima di tornare alle scartoffie burocratiche di un sistema sanitario ormai vecchio e lento.

Tutti sappiamo cos’é un tampone: è un prelievo di cellule e secreti da superfici organiche e non.

Il tampone vaginale per la ricerca di germi e funghi, il tampone faringeo per la ricerca dello streptococco, il tampone rettale per la Klebsiella, il tampone cutaneo per ulcere e ferite infette, il tampone salivare per i test sul DNA.

Meno conosciuto è il tampone delle superfici (tavoli, maniglie, strumenti di lavoro) per la ricerca di contaminazioni negli ambienti di lavoro.

Il tampone per la ricerca del COVID-19, che si esegue sulla mucosa nasofaringea, è un TEST DIAGNOSTICO.

Non è un test preventivo e non è un test per la ricerca di un’immunità in atto.

Questo passaggio è fondamentale se vogliamo rispondere alla domanda “quando e quanto serve il tampone per il COVID-19”.

A differenza dei test microbiologici più comuni, è anche complesso e costoso da eseguire.

Necessita di strumenti idonei, di reagenti specifici e di personale tecnico esperto.

Non si usa il microscopio ottico (troppo piccoli i virus), nè coloranti, ma si entra nel cuore del virus alla ricerca del suo codice genetico: il filamento di RNA.

Se osservate il modello del virus nella semplificazione in figura, tutti riconoscerete i famosi spikes, le protuberanze sulla superficie del virus che danno l’aspetto a “corona”, da cui il nome.

Gli spikes permettono al virus di legarsi a determinate cellule tramite alcuni recettori a cui il virus si è adattato per parassitare l’ospite (che sia uomo, pipistrello, pangolino o gatto).

Nell’uomo, questi recettori posti sulla membrana cellulare e che fanno entrare gli spikes come una chiave nella serratura, si trovano in particolare nelle vie respiratorie, nell’intestino e nei vasi.

Il virus, come tutte le forme di vita, ha un fine primario: riprodursi.

A differenza di altre è un parassita obbligato in quanto non possiede le strutture cellulari per fare delle copie di se stesso.

Possiede solo l’informazione di come fare.

Quell’informazione (codice genetico) è contenuto in quel magico filamento di RNA, in giallo nella figura, all’interno del virus.

È una catena di nucleotidi di soli 4 tipi: A, G, C, U. Con queste quattro lettere provate a creare una sequenza di 30.000 nucleotidi (esempio A-C-C-C-U-A-G-U-G-A-C-U-C-A-U…….).

In questa lunga catena è contenuta l’informazione che il virus, entrato nella cellula ospite, invia come messaggio alle complesse strutture cellulari, ingannandole e obbligandole a formare nuovi virus identici, che escono dalla cellula per continuare a infettare cellule sane.

La ricerca del coronavirus con il tampone si basa sulla identificazione di sequenze specifiche di questo RNA, ma prima c’è bisogno di uccidere il virus contenuto nelle cellule prelevate dal tampone.

Poi si estrae l’RNA che è presente in quantità infinitesimali e non identificabili.

Qui entra in gioco una delle più grandi scoperte del secolo, la PCR (reazione a catena della polimerasi – per RNA si usa la RT-PCR) che permette di produrre grandi quantità di copie di DNA o RNA che diventano identificabili facilmente e confrontabili con sequenze campione del virus da cercare.

Dopo questo passaggio tecnico ostico, torniamo al nostro tampone con delle precisazioni: l’incubazione della Covid-19 dura da 1 a 14 giorni, mediamente i sintomi compaiono dopo 5-6 giorni dall’infezione e l’eliminazione del virus (guarigione virologica) può avvenire dai 14 a oltre 30-40 giorni dall’infezione.

Questo significa che abbiamo una finestra temporale ristretta per identificare il soggetto contagiato e potenzialmente infettante per gli altri soggetti.

Tra questi dobbiamo ricordare i soggetti asintomatici (ma virologicamente positivi per un periodo limitato) che sembrano rappresentare una delle fonti di contagio maggiore.

Quando serve il tampone?

1) Serve per fare diagnosi in soggetti con sintomatologia clinica compatibile con la Covid-19 e distinguerla da altre malattie simili.

2) A identificare soggetti positivi che hanno avuto contatti recenti con altri positivi (famiglia, lavoro, strutture sanitarie) per isolarli.

3) A controllare la negativizzazione in soggetti positivi e interrompere la quarantena.

Ricordiamo però la possibilità di falsi negativi per esecuzione insufficiente del tampone o per assente localizzazione nelle alte vie respiratorie.

Io aggiungerei anche qualche falso positivo, dovuto al fatto che anche tracce di RNA residuale in assenza di carica infettante, vengano amplificate durante le reazioni chimiche di ricerca e riconosciute.

Come avviene sulle superfici, dove spesso si riscontrano tracce di RNA virale (non infettante) ma non virus.

Quanto serve il tampone? Moltissimo se si rispettano le suddette indicazioni primarie.

Poco o nulla se usato come studio della popolazione o come curiosità personale.

Forse l’unica indicazione nella ripetizione ciclica potrebbe essere nel personale sanitario a diretto contatto con soggetti affetti Covid-19 in strutture ospedaliere.

Vi sono studi in merito tra cui nel Policlinico di Bari.

Ma il tampone ha un significato importante quando è tempestivo.

Deve essere eseguito nei primi giorni della malattia o nei 7-10 giorni dal possibile contagio ma, soprattutto, deve dare l’esito in poche ore per la terapia e l’isolamento.

Le attese di 10-15 giorni per l’esito vanificano qualunque intervento.

Come è tardivo eseguire i tamponi a tutti nelle case di riposo quando ormai il coronavirus ha fatto strage.

Del resto è tecnicamente impossibile sottoporre a tampone tutta la popolazione.

Dovremmo ripetere il tampone ogni 15 gg a 60 milioni di italiani e per quanto tempo? Con quali strumenti, reagenti e personale?

Il discorso cambierà tra poco con i nuovi test immunologici quantitativi sul sangue.

Saremo in grado di identificare con un semplice prelievo i soggetti che hanno avuto contatto con il virus e hanno formato anticorpi (tipo e quantità) e verificare nel tempo la durata e la validità dell’immunità. Perché, secondo il mio modesto parere, ci sarà una nuova domanda a cui rispondere.

Se l’immunità naturale dovuta all’infezione non dovesse garantire da una reinfezione, che prospettive avremmo con i tanto attesi vaccini?

Da cultore del darwinismo, spero e auspico che le leggi della selezione naturale, che da sempre impongono al parassita di non uccidere il suo ospite ma di convivere, modifichino qualche lettera fondamentale nella sequenza A, G, C, U.

I ripetuti passaggi nell’uomo potrebbero far perdere al coronavirus quella “virulenza selvaggia” dovuta al salto di specie e adattarsi alle specie umana come avvenuto per tanti altri virus, a partire dai cugini coronavirus del raffreddore comune.

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